Salve a tutti, dopo l’eliminazione dalla Champions League ad opera del Bayern di Monaco, la Juventus si rituffa nel campionato ed andrà ad affrontare il Torino domenica. Il derby della mole è stato spesso segnato da sfottò di pessimo gusto da parte dei tifosi bianconeri inneggianti il disastro di Superga. A prescindere dalla condanna verso certi striscioni di cui non è mia intenzione parlare in questo articolo, voglio invece ricordare oggi gli strascichi giudiziari che questo disastro portò e che permise di accendere il dibattito riguardo al problema della natura giuridica del contratto che lega uno sportivo professionista ad una società e, più in generale, riguardo alla natura giuridica delle associazioni sportive. Come noi ben sappiamo, quando l’aereo che trasportava la squadra torinese con i loro accompagnatori di ritorno da Lisbona, dove aveva disputato un incontro amichevole contro la formazione locale del Benfica, si andò a schiantare contro la collina di Superga, la squadra era ormai famosa per i vari successi conseguiti in Italia e all’estero e aveva dato numerosi atleti alla squadra nazionale. L’A.C. Torino chiese allora il risarcimento dei danni alla compagnia aerea A.L.I. ai sensi dell’ art. 2043 c.c. il quale afferma oggi come allora che: qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno. L’associazione sportiva granata sosteneva di avervi diritto in quanto aveva perso tutto il suo patrimonio costituito dal valore dei suoi calciatori avendone perso, conseguenzialmente, la possibilità di guadagnare enormi introiti dalle possibili operazioni di cessione degli stessi che erano di sua proprietà. Il Tribunale di Torino investito della controversia non la pensò però così, sostanzialmente perché la società attrice non poteva vantare un diritto reale o assoluto su dei calciatori, che ancora prima di essere tali erano delle persone, diritto reale che solo può giustificare la tutela aquiliana del danno ma solo un diritto personale e relativo derivante dal rapporto di prestazione d’opera. In altre parole, secondo i giudici, l’A.C. Torino non aveva un diritto immediatamente e direttamente violato dall’uccisione dei calciatori e ne tanto meno un diritto alla loro vita e alla loro integrità fisica perché il calciatore nonostante il vincolo di subordinazione che lo legava all’associazione sportiva non poteva essere un bene di questa ma al più un suo prestatore d’opera alla stregua di un qualunque professionista che in, cambio di un corrispettivo in danaro, per un certo periodo di tempo si impegna a svolgere una determinata attività. Questa sentenza ebbe, ovviamente, un notevole eco e fu variamente commentata da molti giuristi fra cui ricordiamo il Vassalli che ne condivise il pensiero espresso dal Tribunale di Torino e altri giuristi che invece avversarono tale sentenza fra cui ricordiamo Greco, Barbero, Bigiavi e Redenti. Questi ultimi giuristi, che furono poi chiamati dalla stessa A.C. Torino ad esprimere un parere pro veritate, non risparmiarono gravi critiche avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Torino. Greco e Redenti erano del parere che un’associazione calcistica, quale il Torino, era da considerarsi una impresa alla quale le vittime del disastro aereo erano professionalmente legate. Per Barbero inoltre, il credito delle prestazioni dei calciatori, la possibilità di ingenti guadagni realizzabili con la loro cessione ad altre società, erano beni compresi nel patrimonio la cui distruzione era in rapporto diretto con l’incidente di Superga. I suddetti giuristi e in particolar modo Barbero e Bigiavi erano concordi sul fatto che il Torino aveva subito un ingente diminuzione patrimoniale diretta e immediata dalla morte dell’intera squadra più le riserve e l’allenatore. Bigiavi in particolar modo sosteneva il rapporto di appartenenza del giocatore alla squadra il quale, dal momento in cui si impegnava a giocare con essa richiedendone la tessera, era indefinitivamente vincolato ad essa senza possibilità di sottrarsene. Tale vincolo di “appartenenza” di un giocatore ad una determinata associazione sportiva poteva venir meno solamente quando l’associazione calcistica a cui il giocatore apparteneva lo inseriva nella c.d. “lista di trasferimento”, ossia mediante una pubblica offerta di cessione ad altra società. Il bene che veniva alienato era appunto la “titolarità attiva dell’appartenenza” ossia la sudditanza calcistica del giocatore. Il rapporto che venne quindi costruito, ad opera del Bigiavi e degli altri giuristi intervenuti pro veritate per argomentare le pretese risarcitorie del Torino, fra il calciatore e la squadra per cui giocava, era quindi un rapporto di sovranità della associazione sul calciatore analogo a quello che avrebbe potuto avere lo stato sul cittadino. Bigiavi quindi sosteneva che il calciatore era un bene dell’associazione calcistica a cui apparteneva, un bene immateriale dal valore spesso molto alto la cui distruzione in seguito all’uccisione avrebbe fatto assumere, in capo alla società di appartenenza, un diritto al risarcimento. Secondo Bigiavi, inoltre, il valore di tutta la squadra del Torino nel suo complesso, era molto più alto del valore ottenuto attraverso la somma algebrica del valore di tutti i calciatori presi singolarmente perché la squadra era anche il frutto di un paziente lavoro di anni fatto di organizzazione e competenza calcistica affinché tutti i giocatori si completassero a vicenda per interpretare al meglio gli schemi di gioco. Dalla lettura della posizione di Bigiavi si evince in particolar modo che la posizione del calciatore all’epoca dei fatti era radicalmente diversa da quella attuale. Il calciatore era sottoposto al “vincolo sportivo”, non poteva chiedere di essere ceduto e non poteva chiedere di rescindere il contratto o peggio di adeguarlo a sue nuove richieste in termini economici. Il famoso “mal di pancia” di cui molti giocatori attuali soffrono a fine campionato, all’epoca non era assolutamente concepibile. Tornando alla vicenda giuridica di Superga, i giudici d’appello della Corte di Torino non accolsero le doglianze dell’appellante A.C. Torino perché essa non poteva vantare un diritto reale di “proprietà” nei confronti dei calciatori. Un siffatto “diritto di proprietà”, oltretutto, avrebbe urtato contro i principi del nostro ordinamento basati sulla persona umana che è soggetto e non oggetto di diritto assoluto altrui. Ai giudici d’appello di Torino appariva evidente che, nonostante le differenze di grado nella subordinazione rispetto ai normali rapporti che intercorrono fra lavoratore e datore di lavoro, il rapporto di lavoro che intercorreva fra il calciatore e la sua società di appartenenza non poteva che originare solamente diritti di credito da parte del calciatore verso la società in cambio della messa a disposizione della propria opera. Inoltre i giudici d’appello fecero notare che la difesa trascurava alcuni rilevanti aspetti delle norme che regolavano il trasferimento dei calciatori. Esso infatti, a talune condizioni, poteva avvenire anche senza il consenso della società. Ai sensi dell’articolo 50 lettera a, n. 3 del regolamento organico all’epoca in vigore, il calciatore poteva comunque svincolarsi dalla società di appartenenza dandone preavviso almeno due anni prima e astenendosi per tal periodo da ogni attività calcistica e comunque il suo trasferimento non poteva mai attuarsi senza il suo consenso espresso (art. 47, lettera i del regolamento all’epoca in vigore) . Per i giudici d’appello di Torino, i poteri della società nei confronti del giocatore trovavano la loro legittimazione essenziale in un atto iniziale di autonomia contrattuale, nella volontà manifestata dallo stesso giocatore di far parte di una determinata associazione e la sua posizione giuridica e quella correlativa della associazione poteva semplicemente costruirsi come risultante da un intreccio di rapporti obbligatori, di cui il vincolo di appartenenza ne era l’esplicazione, che sarebbero potuti essere violati solo dalle parti nel momento in cui, per esempio, il calciatore fosse passato arbitrariamente ad un’altra squadra. È interessante comunque anche notare che, per i giudici d’appello di Torino, non era assolutamente accoglibile la tesi difensiva per cui con la perdita dell’intera squadra completa in tutti i suoi elementi anche complementari (riserve, direttore, allenatore, massaggiatore), si era perso un complesso a cui doveva riconoscersi la natura di bene giuridico unitario sotto il profilo di azienda della quale efficienza e avviamento consisteva, più ancora che nell’eccellenza delle qualità individuali, nella sapiente organizzazione dei singoli elementi. Tale tesi fu considerata infondata in quanto perché vi fosse una azienda, era necessaria una impresa il cui fine principale sarebbe dovuto essere il lucro e tale caratteristica appariva dubbia per una associazione calcistica. Ad ogni modo per i giudici d’appello di Torino, pur volendo considerare l’A.C. Torino un’azienda, quelli che andarono perduti furono “solo” taluni suoi “prestatori d’opera” ma non certo l’azienda. Dagli stessi scritti difensivi risultava anzi che essa aveva oltre a quella squadra di tanto pregio anche altre squadre minori con le quali addestrava un gran numero di giovani atleti oltre che, ovviamente, una generale organizzazione tecnica e amministrativa, locali, campi di gioco, capitali liquidi, crediti e debiti e quel particolare valore economico, strettamente conseguente a una fortunata attività, che era l’avviamento. Tutto questo complesso, nel suo vincolo unitario, costituiva eventualmente l’azienda dell’A.C. Torino e questo complesso, che solo poteva formare oggetto di proprietà, non era andato perduto ma, sia pur gravemente depauperato nei suoi elementi, continuava a sussistere. La Corte di Cassazione, nella sentenza del quattro luglio 1953, confermò le tesi dei giudici di merito ossia che i calciatori del Torino periti nell’incidente aereo di Superga erano dei semplici prestatori d’opera sui quali l’A.C. Torino poteva al più vantare diritti di credito ma mai diritti assoluti sulla loro vita o integrità fisica in quanto persone e non beni materiali e quindi nulla era dovuto da parte della compagnia aerea A.L.I., chiamata in causa in quanto responsabile del disastro, nei confronti della società granata. Anche la Cassazione riaffermò il principio che, ritenendo il contrario, si sarebbe andato contro i fondamentali principi del nostro diritto secondo il quale le persone possono essere soggetti e non certo oggetti di diritti altrui e i calciatori del Torino erano delle persone e non certamente un gregge o una biblioteca. La Corte di legittimità riconobbe comunque la tutela aquiliana anche sui diritti relativi di credito e quindi la possibilità del risarcimento dei danni derivanti dalla lesione di quest’ultimi ma ne ravvisò però, nella fattispecie precisa, un difetto di causalità immediata e diretta fra il danno lamentato dall’associazione calcistica del Torino e l’illecito addebitato alla compagnia aerea A.L.I. unica condizione, quella appunto del nesso di causalità immediata e diretta, che avrebbe potuto aprire le porte al risarcimento del danno. È comunque sottolineare che la Corte di cassazione riconobbe l’atipicità, dovuta al particolare vincolo di subordinazione, del contratto di lavoro che lega il calciatore alla propria squadra che, per quanto ampio potesse essere, non sopprimeva ogni volontà e libertà dei calciatori e soprattutto, contrariamente a quanto ritennero i giudici di merito, la Corte ritenne plausibile l’eventualità di poter considerare un’associazione sportiva come un’azienda in senso tecnico giuridico e quindi, in quanto tale, con fine di lucro . La possibilità di poter perseguire lo scopo lucrativo sarà poi riconosciuta positivamente dal legislatore nell’articolo 4 comma 1 del d.l. 20 settembre 1996, n. 485, convertito nella l. 18 novembre 1996, n. 586. Questa legge, promulgata in seguito alla sentenza Bosman, abolì inoltre totalmente il “vincolo sportivo” di cui alcuni retaggi erano ancora presenti nella legge 91/1981 che regolamentò il rapporto di lavoro fra le società sportive e gli atleti professionisti qualificando quest’ultimi come lavoratori subordinati e non certo, come furono qualificati invece dai giudici di Torino, come prestatori d’opera ma queste sono altre storie di cui un giorno parleremo. Buona giornata.
Storia del diritto sportivo – Il disastro di Superga
17 giovedì Mar 2016
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Massimo Cudin ha detto:
Quantificare il danno della completa scomparsa di quella che all’epoca possiamo tranquillamente definire come una delle piu’ forti squadre al mondo direi che e’ anche difficile….ricordiamoci che la tragedia avvenne praticamente negli anni dell’immediato dopoguerra e farsi pagare un risarcimento in un paese con diversi problemi non credo fosse semplice…..io all’epoca non ero nato, ma immagino che fosse un processo molto seguito,anche a livello mediatico,,quindi la sentenza di un risarcimento a una societa’ per la perdita di una squadra fortissima avrebbe creato un precedente, che per quei tempi forse era meglio evitare
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ruggierodistaso ha detto:
No, molto semplicemente si è stabilito che i giocatori sono delle persone e non delle pecore, se ti ammazzano una tua pecora hai diritto al risarcimento, se ti ammazzano il tuo datore di lavoro non hai diritto a niente. Comunque si, è stato un processo molto seguito che ha incominciato a scalfire quello che all’epoca era considerato un dogma, l’istituto del “vincolo sportivo”.
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Massimo Cudin ha detto:
Ricordo che all’epoca, praticamente tutta la serie A,regalo’ al Torino alcuni giocatori….chiaramente con 2o3 calciatori regalati da ogni squadra si e’ potuto fare una nuova rosa….ovviamente senza campioni di primo piano fu l’inizio del declino….ma gia’ il fatto che fra le societa’ esistesse questo rispetto era una bella cosa
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Massimo Cudin ha detto:
E pensare che in quella squadra c’era pure un certo Tosatti….il papa’ del compianto giornalista…..
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Claudio ha detto:
Non nella squadra… Era uno dei giornalisti aggregati se non erro. In quella squadra tra i giovani (che quindi non partì e si salvò) c’era invece Raf Vallone…
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Paolobxl ha detto:
onore all’articolo che spiega molte cose di cui non ero a conoscenza
mi permetto di intervenire per farti presente un fatto molto strano
Un avvocato napoletano ha esposto denuncie contro Rizzoli
usando come termini gli stessi della sentenza calciopoli
un tuo giudizio al riguardo sarebbe gradito per capire cosa ne pensi
e per l’ennesima volta Liguori-l’altro non ricordo il nome ha deciso che é stato fatto con dolo e Lancia accuse senza alcuna prova
nel frattempo hanno idirizzato il pensiero delle masse e tutti a corrergli dietro
e implicitamente dettano un diktat al prossimo arbitro
“é solo ammesso sbagliare contro perché in caso contrario ti crocefiggiamo al sentimento popolare e ora ti becchi anche una denuncia
tu come lo classifichi questo fenomeno da qualche parte nei tuoi tomi di diritto sportivo e non qual cosa al riguardo deve esserci
si é deciso che solo lo sbaglio a favore della juve é reato per gli altri e svista
et voilà Calciopoli3
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ruggierodistaso ha detto:
Qui ognuno può dire quello che vuole, se non ci sono intercettazioni, se non ci sono ingerenze nel mondo arbitrale, se non ci sono passaggi di danaro siamo al livello delle chiacchiere da bar che lasciano il tempo che trovano.
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Paolobxl ha detto:
a dir vero pensavo a una non risposta anche se in un certo senso lo é
non sto parlando delle chiacchiere fatte tra noi su blog con una 10 di persone
o al bar
ma di chiacchiere fatte da persone con grandissimo potere mediatico
con potere di influenza spropositato
e non sono chiacchiere che lasciano assolutamente il tempo che trovano
con quel tipo di chiacchiere é nata calciopoli
si Lanciano accuse e sospetti senza alcuna prova via i media
(fenomeno già conosciuto ai piu’ che hanno trattato calciopoli)
già la prima volta sono riusciti a far cambiare la designazione
(e qui é stato denunciato fortunatamente non dalla juve)
e qui gli é andata male grazie a ZAZA
non manca quasi niente
soldi
potere mediatico
accuse senza pove che mette in pericolo la serenità del giudice(arbitro)
manipolazione dei sorteggi
il tutto ben registrato e documentato
manca L’Auricchio di turno
e le sim che qui non servono perché il tutto viene fatto alla luce de sole
prendo solo lui come esempio
il capopopolo degli antijuventini che aspettano tutto l’anno l’errore pro juve per lanciare la loro prsonalissima campagna diffamatoria
con tutti gli altri che si accodano come pecorelle ( o sodali)
perché tu hai trovato passaggi di denaro in Calciopoli 1???
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ruggierodistaso ha detto:
passaggi di danaro? non direi anche se c’è una telefonata fra Moggi e la moglie “e ma quelli altro che panettoni” che può significare tutto come non può significare niente
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bjh ha detto:
A De Santis, qualcuno, intimorito forse da un suo possibile business a livello mondiale sugli pneumatici, ha guardato anche nelle mutande senza trovare nulla. Se c’era passaggio di denaro lo beccavano al 99,9%. Se contropartita c’è stata credo sia da ricercare nella promessa di far rimanere nel giro chi veniva a compromessi. Tutte ipotesi ovviamente, ma il passaggio di denaro classico tenderei ad escluderlo per tutti gli “attori” di calciopoli.
ps ovviamente l’unico interesse che ha De Santis per gli pneumatici è quando il garagista gli presenta il conto per la sostituzione delle gomme usurate.
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paolobxl ha detto:
già chissà cosa voleva dire con quella frase
che oltre al panettone bisognava provvedere anche a una cassa di prosecco ???
quindi traducendo il tuo pensiero
per legge se certe cose si dicono via i media a millioni di persone sono chiacchiere da bar
ma se si dicono le stesse cose al telefono e questo viene intercettato
non sono piu’ chiacchiere da bar ma in automatico si trasformano in reati penali o sportivi
ok adesso mi é chiaro il concetto tutto dipende da chi le dice
peccato pero’ constatare che anche nel mondo delle intercettazioni sia stato fatto fatto distinguo
mondo juve = reato
resto del mondo =chiacchiere da bar
he si sai che hai ragione che strano il diritto sportivo o penale
o mi tengo una juve vincente con tutti gli inconvenienti del mestiere
o mi tengo un juve perdente e tutti vissero felici e contenti
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